VULGATA NOVA VULGATA CEI1974 CEI2008
10,1:Lascerò libero il corso alle mie parole contro di me. Non mi tacerò, benché a me noccia il parlare.
10,2:Non voler tu condannarmi. Perdona se o con eccessivo ardimento, o inconsideratamente io parlo. Il perché in tal guisa mi giudichi. Ovvero: il perché così mi punisci come tradussero i LXX.
10,3:Parrà egli forse a te ben fatto ec. Non può mai essere, che tu Dio ottimo e giustissimo approvi, ch'io sia calunniato e oppresso, io, che pur sono opera delle tue mani, e tua creatura. Egli è proprio di te l'amare, il favorire le tue creature, e difenderle, e custodirle, e non il permettere, che sieno calunniate a torto, e oppresse. Or tu vedi come gli stessi amici d'ingiustìzia e di empietà mi accusano non con altro fondamento se non perchè io sono in miseria.
10,4:Son eglino forse gli occhi tuoi ec.Il mio Giudice. non può (come gli uomini) errare per ignoranza, ne per poca avvedutezza; gli occhi di lui sono perspicacissimi; egli vede le cose occulte e ascose nelle tenebre, perché la luce è con lui, Dan. II. 22. La seconda parte di questo versetto e una sposizione della prima.
10,5-7:Son eglino forse i giorni luci come i giorni dell'uomo, ec.I giorni dell'uomo son brevi, gli anni dell'uomo non pochi; onde meraviglia non è se i giudici della terra di molte cose sono ignoranti, e abbisognano di tempo per investigare, e conoscere la verità; ma tu, o Dio, tu se' ab eterno, e nissuna nuova scienza porterà a te il giorno di domane, perché tutto è noto a te e il passato e il presente e il futuro, così tu non hai hisogno nè di tempo ne di lungo esame per conoscere la mia innocenza.
E non v'ha chi possa sottrarmi ec.I LXX lessero: Ma e chi è, che dalle tue mani mi tragga? Tu sai, che io non ho operato da empio, ma chi è, che dal tuo sdegno mi liberi? La lezione della volgata da lo stesso senso, purché la particella congiuntivo e s'interpreti per abbenchè. La sposizione di s. Agostino e questa: Tu sai, che nulla ho fallo di empio riguardo agli uomini, ma chi é che dalla mano tua passa essere liberato quando tu entri in giudizio? Finalmente questa sentenza di Giobbe è simile a quella di Paolo: Non sono a me consapevole di cosa alcuna, ma non per questo sono giustificato, 1. Cor. IV. 4.
10,8:Le mani tue mi lavorarono, ec. Rammenta con molta tenerezza e gratitudine il benefizio della creazione, e la bontà grande del suo Fattore nel formarlo, e nel ricolmarlo di doni e di lavori, donde prende argomento di sperare, e di chiedere nuove grazie. Ho tradotto mi lavorarono piuttosto che mi fecero, ovver mi formarono per accostarmi più al senso della voce Ebrea, la quale esprime la diligenza e lo studio, che pone un artefice nel fare qualche squisito lavoro. Ottimamente spiegò i sensi di Giobbe s. Ambrogio in Ps. 118. Non abbandonare, o Signore, l'opera tua: te autore del mio essere io interpello, Te mio fattore: altro soccorso io non cerco; impiega la mano tua a darmi aiuto tu, che la impiegasti a crearmi.
10,9:Qual vaso di fango tu mi facesti. ec. Ricordati come di umida terra tu mi formasti in Adamo, e come secondo la sentenza data da te contro l'uom peccatore io dovrò risolvermi in polvere.
10,10:Non farti tu forse, che mi spremesti qual latte, ec. A Dio attribuisce la propagazione, e formazione dell'uomo, la qual veramente è tutta opera, e benefizio del medesimo Dio, come, notò S. Agostino in Ps. 118 ed è anche ripetuto in molti luoghi delle Scritture. Sembra qui insinuato l'opinione di vari antichi scrittori, i quali credettero formarsi il feto nel sen della madre, come un latte, che si acquaglia. vedi Sap. VII. 2.; e non la meraviglia, che Giobbe in una cosa appartenente alla storia della natura si adatti alla maniera di pensare degli uomini del suo tempo, e tanto più ciò dee concedersi, perché anche oggigiorno la generazione dell'uomo è un mistero.
10,12:Mi donasti vita.Mi desti un' anima, per cui io vivo, Gen. II. 7.
E misericordia. Mi ricolmasti di molti e grandi benefizi a salute dell'anima e dei corpo.
E il tuo favore custodi ii mio spirito. La tua providenza, la tua amorosa vigilante assistenza non mi lasciò in verun tempo.
10,13:Abbenche' tu queste cose nasconda ec. Tu mostri adesso di non ricordarti più dell'antica tua misericordia, mostri di non ricordarti com' io sono opera tua, tua creatura amata e beneficata altamente da te; ma io so, che tutto è presente a te, ne io m'indurro a creder giammai, che tu mi abbi dimenticato, ma solo dissimuli, e come se più non mi conoscessi, mi tratti con tanta severità.
10,14:Se io peccai, e per un tempo mi perdonasti: ec. Se nella mia gioventù, ec. nella scorsa mia vita in qualche cosa io peccai, tu pur mi perdonasti, e mi desti segni di riconciliazione e di amore; che se solamente a tempo mi perdonasti, qual è adunque il motivo, per cui la memoria rappelli delle passate mie colpe?
10,15-16:E guai a me se io fossi empio; ec. Se io fossi empio non avrei altro da aspettarmi, se non eterna infelicità, ed essendo anche giusto non ardirò di alzare la testa trovandomi oppresso sotto il peso di tanta miseria. E se alzassi la testa, tu puniresti la mia superbia trafiggendomi cogli acuti dardi di nuovi e squisiti dolori, come un cacciatore trafigge una feroce lionessa, e torneresti a straziarmi con quasi incredibili e prodigiosi tormenti.
10,17:Tu nuovi testimoni produci ec. Questi testimoni prodotti contro di Giobbe sono gli stessi mali, e le moltiplicate calamità, ond'egli era afflitto; imperocchè le pene non solo van dietro alla colpa, ma si considerano iu certo modo come testimoni del peccato commesso dall'uomo, e di tali testimoni facevano uso contro di Giobbe i suoi amici per convincerlo di peccato.
10,20:Lascia adunque, chi io pianga ec. Concedimi prima della mia morte alcun breve spazio di tempo non per altro, che per piangere e deplorare i miei mali.
10,21-22:Prima ch'io men vada... a quella tenebrosa terra. La descrizione di Giobbe non sembra permettere, che per questa terra di tenebre, di culigine, di miserie, e di orrore s'intenda altro luogo fuori che l'inferno. Tale è la sposizione di s. Agostino seguitata da molti altri interpreti Greci e Latini. Ed ecco le parole del s. Dottore: Brama Giobbe un po' di riposo prima di andare alle pene eterne non per altro certamente se non per non andarvi; come se noi ad alcuna dicessimo: emendati prima di dannarti perocchè emendata che egli sia non si dannerà. In una parola, espone qui Giobbe il timore di perdersi e di dannarsi; e secondo l'osservazione di un Greco interprete egli parla così, perché teme, che non ottenendo qualche tempo di sollievo e di respiro, se in mezzo a tali e tanti tormenti dee lasciare la vita, non gli avvenga di essere separato per sempre dalla vista di Dio, e rilegato cogli empi nell'inferno. v. Gregorio lib. LX. Moral. 45 L'immutabilita dello stato dei dannati è dimostrata in quelle parole donde non tornerò; come l'eternità delle pene in quelle altre parole ma sempiterna orrore ec. Notisi ancora, che nell'inferno non manca quell'ordine, che appartiene alla giustizia divina, la quale a proporzione de' peccati punisce i peccatori. Quando adunque dice Giobbe, che non è verun ordine nell'inferno, vuol indicare la confusione, che regna tragli stessi dannati mescolati tra loro senza distinzione di grado, ne di dignità, e il disordine, che regna nelle anime e negli affetti dei reprobi.
Gen Es Lv Nm Dt Gs Gdc Rt 1Sam 2Sam 1Re 2Re 1Cr 2Cr Esd Ne Tb Gdt Est 1Mac 2Mac Gb Sal Pr Qo Ct Sap Sir Is Ger Lam Bar Ez Dn Os Gl Am Abd Gn Mi Na Ab Sof Ag Zc Ml Mt Mc Lc Gv At Rm 1Cor 2Cor Gal Ef Fil Col 1Ts 2Ts 1Tm 2Tm Tt Fm Eb Gc 1Pt 2Pt 1Gv 2Gv 3Gv Gd Ap